Le opere di Piero Scandura invitano alla scoperta di uno spazio che potremmo definire “la stanza dell’artista”. Qualcosa di diverso dallo studio dove vengono dipinte le opere. Questa stanza, in effetti, è un luogo della mente in cui trovano posto, insieme ai mobili e agli altri oggetti, sogni, pensieri, visioni. Sembrano schermi sui quali scorrono immagini tra loro prive di un legame logico – cosa accomuna una comoda poltrona di design con il modellino di una barca a vela? – eppure segretamente in dialogo l’una con l’altra. Un artificio visivo che ricorda soltanto in apparenza quello della pittura surrealista, perché quello posto in essere da Scandura è un meccanismo più mentale e sottile che disattende le convenzioni visive dell’osservatore per indurlo ad una nuova e più profonda comprensione dell’immagine dipinta. Questi ambienti, replicati in più varianti di colore con altrettanti oggetti – poltrone, tavolini, lampade, vasi con fiori – a connotarli, compongono nel loro insieme una tautologia, ovvero un discorso nel quale il reiterarsi dello stesso soggetto trasforma quest’ultimo in un concetto ambiguo, misterioso, aperto a più chiavi di lettura. In altre parole, Scandura ribalta il principio di identità, in base al quale una stanza è una stanza e quindi ogni enunciato è uguale a se stesso, per ricordarci che le cose possono avere molti più significati di quelli che comunemente attribuiamo loro. Ecco perché più le osserviamo, queste stanze, e più ci accorgiamo che sono altro rispetto a ciò che sembrano: un paesaggio marino, un giardino fiorito, una composizione astratta di forme geometriche. Una stanza non è soltanto una stanza, dunque, ma può essere tutto quello che l’immaginazione dell’artista per primo, e poi anche la nostra, vorrà vederci, superando così i limiti di una visione stereotipata.
[Daniela Pronesti']