Quella di Maurizio Biagi è un’operazione concettuale che parte dal recupero di un materiale e di una tecnica tradizionali − la terracotta nella lavorazione caratteristica dell’Impruneta , Fi (dove lui vive ed opera) − per arrivare ad una sintesi espressiva incentrata sul colore e sul processo ideativo alla base dell’opera. Parafrasando il titolo di un celebre quadro di René Magritte, Ceci n’est pas une pipe, potremmo dire che quelle di Biagi non sono lastre di terracotta dipinte, ma creazioni ben più complesse che sfidano il modo comune di guardare la realtà. Quella proposta, infatti, è una riflessione sul linguaggio artistico e su come questo influenzi la percezione dell’opera e il giudizio da parte di chi la osserva. Di fronte all’ installazione di più blocchi colorati ed esposti insieme come parti di un’unica composizione − soluzione più volte proposta da Biagi in una rilettura del tutto personale di alcune sperimentazioni sul colore dell’arte minimalista − lo spettatore viene totalmente catturato dagli accordi o dai contrasti cromatici dimenticando oppure non considerando la materia di cui è fatta l’opera. In altre parole, il processo ideativo e concettuale prende il sopravvento sugli aspetti costruttivi, confermando come sia l’azione dell’artista, supportata dal pensiero, a decretare la nascita dell’opera anche quando questa si basi, come nel caso considerato, sulla trasformazione di un materiale in sé povero. La terracotta diventa così un supporto che, al pari della tela, accoglie l’intervento dell’artista e lo restituisce con l’evidenza di una superficie scabra, irregolare, disseminata di rilievi che aggiungono consistenza al colore fondendosi totalmente ad esso in un corpo unico.
[Daniela Pronestì]