Prima di indicare il salto della mente oltre la soglia del sensibile, la parola “astrazione” suggerisce sul piano etimologico un processo di separazione, se non di vera e propria “estrazione”, di una parte dal tutto a cui appartiene. Come dire, in altre parole, che l’astrazione non consiste in una negazione di ciò che è dato sull’orizzonte del visibile e tantomeno in un vagare senza mèta in uno spazio illimitato. Si tratta, invece, della capacità sottile di guardare attraverso le cose, traendone l’essenza e le ragioni nascoste. È quanto accade nell’opera di Franco Margari dove tutto ciò che richiama l’ambiente naturale – orizzonti, colori, riflessi di luce – altro non è se non il risultato di una “estrazione” di senso e di valori espressivi che, desunti dall’osservazione del paesaggio, non solo diretta ma anche mediata dalla migliore tradizione pittorica, confluiscono in una dimensione che non appartiene più alla sfera del visibile, dell’esperienza estetica o contemplativa, ma procede dalla percezione all’interiorizzazione del dato naturale. In questo caso, quindi, parlare di astrazione vuol dire riferirsi anzitutto alla decostruzione dell’idea stessa di paesaggio che nelle opere di Margari non è più un luogo collocabile nel tempo e nello spazio, ma è un condensato di memorie, pensieri, suggestioni liriche, stati interiori. Non è la natura in quanto tale l’oggetto di interesse, ma è l’utopia che al concetto di natura si lega quando l’immagine dipinta diventa rivelazione del non visibile o, per meglio dire, di un “vedere” che va oltre, facendo coincidere la natura con l’idea più profonda ed organica dell’esistere. A questa identificazione si deve il carattere per così dire “magmatico” del colore, il sobbollire di armonie e dissonanze – non prive di una vera e propria partitura musicale – che suggeriscono il divenire continuo, sull’epidermide del dipinto, di verità fragili, apparizioni inattese, crepuscoli di luce pronti a dissolversi. È la seduzione della pittura quella che Margari ci invita a considerare, il suo farsi “evento” sullo specchio riflettente della lamina metallica che accoglie e restituisce le stesure di colore permeandole di un’intensa quanto cangiante profondità luminosa. Non è un semplice sommarsi di materia e luce, superficie e colore, realtà riflessa e miraggio interiore, ma è il germogliare di una condizione dello sguardo che consente di “vedere” e di “vedersi” per tramite della pittura, di coniugare l’istante della percezione e l’assoluto del pensiero in un linguaggio che da sempre interroga la poesia dell’indefinito.
Daniela Pronestì